oppure i soli accessi alla Rete in ULL come EUTELIA per poter dribblare gli aumenti
Telecom, senza lo scorporo avanti piano sulla nuova rete
STEFANO CARLI
Non si accettano scommesse, perché di questi tempi non si sa mai, ma è proprio difficile che tra otto giorni, il 2 dicembre, il cda di Telecom Italia decida qualcosa sulle sorti della rete. Certo, le cose possono cambiare rapidamente e tutti sono molto abbottonati. Ma ad oggi è convinzione diffusa che la separazione della rete non è una cosa da avviare con questa Borsa. Se Bernabè mettesse la sua infrastruttura in una società autonoma e separata, in cui far confluire una bella fetta dei 37 miliardi di debiti che appesantiscono il gruppo e ne limitano la capacità di manovra, aprendone poi il capitale per poco meno del 50% all’ingresso di nuovi soci, i rating di debito di Telecom risalirebbero, la cassa aumenterebbe e ci sarebbero più risorse da investire. Il titolo salirebbe sospinto da questo circolo virtuoso.
Vale la pena giocarsi questa carta oggi? L’effetto annuncio potrebbe essere annullato in pochi attimi dall’ennesimo crollo del Dow Jones. Insomma, c’è troppa paura sui mercati. E siccome si tratterebbe solo di lanciare un processo lungo almeno una ventina di mesi, tanto vale aspettare. Fermo restando che la speranza è che prima o poi accada qualcosa che salvi Telecom dall’amputarsi la rete: ma qui più che speranze, siamo nell’ambito dei miracoli.
Non sarà poi un cda, quello del 2 dicembre, in cui si parlerà di apertura del capitale. Bernabè l’ha già smentito. E poi, in qualche modo, un aumento di capitale l’ha già incassato. Proprio là dove serve, ossia nei margini. L’aumento del canone che l’Authority ha appena concesso è una boccata d’ossigeno per il gruppo telefonico. Sono circa 330 milioni annui di maggiori ricavi a fronte di nessun maggior costo: quindi, margine puro.
Insomma, il cda del 2 dovrebbe limitarsi al solo piano industriale. Non è un arretramento: questo cda è stato da sempre dedicato da Bernabè solo a questo e solo l’estemporanea uscita di Franco Bassanini da neo presidente della Cdp ha scompaginato l’austero programma del manager di Vipiteno. Austero come il suo piano industriale. Un documento che promette di essere come la finanziaria: limato sino all’ultimo secondo perché dentro si parla soprattutto di tagli, lacrime e sangue.
Una delle prime mosse di Bernabè in Telecom è stata di annunciare il taglio ai dividendi, simbolo dell’era tronchettiana, effetto delle necessità di cassa degli azionisti e sintomo di un livello di investimenti molto basso. Ma la tempesta delle Borse rischia di vanificare l’ambizione di riportare proprio sugli investimenti queste risorse aggiuntive. E si torna al punto di partenza: il nodo della rete. Anzi, più esattamente, della «nuova» rete.
La crisi economica sta rallentando tutti i processi che comportano investimenti e grandi esborsi. E anche sul fronte delle regole mancano decisioni: l’AgCom di Calabrò deve rendere note le conclusioni delle sue audizioni; lo stesso deve fare (ma qui è solo questione di giorni) la commissione Trasporti e tlc della Camera; quanto alla task force voluta dal sottosegretario alla Comunicazioni Paolo Romani e in cui è stato coinvolto Francesco Caio, siamo appena all’inizio.
Tutto in alto mare, quindi, ma con almeno una certezza: le Ngn non sono un affare della sola Telecom Italia. Intanto perché un progetto infrastrutturale di questa portata non è affidabile a un solo soggetto. Tanto più se questo soggetto è la superindebitata Telecom Italia. Che può altresì realizzare una rete in fibra che risponda alle sue di esigenze, quelle di business. Questo è normale e legittimo, ma è cosa diversa dal significato che oggi si dà alle Ngn. Tanto più dopo la vittoria di Obama negli Usa, che ha proclamato ‘banda larga per tutti’.
La riprova è nero su bianco nei piani di Telecom sulle Ngn. Piani che sono di lungo periodo e di ridotta portata, dal punto di vista del sistemaPaese. Telcom, in sostanza, si propone di cablare direttamente in fibra ottica le utenze che fanno capo alle prime 2 mila centrali telefoniche. E conta di farlo in dieci anni.
Ora, 2 mila centrali sono meno di un quinto rispetto alle 10.400 totali. Anche se, siccome sono quelle delle maggiori città, tutte assieme dovrebbero corrispondere circa al 5060% delle linee telefoniche.
Per realizzare questo obiettivo in modo completo si arriverà oltre il 2016 e le risorse programmate parlano di 10,4 miliardi di investimenti. Siamo sotto i 15 miliardi che tutti gli esperti stimano come costo per una grande cablatura in fibra ottica nazionale. Ma il vero fattore da sottolineare è che solo una parte di quei soldi vanno alle Ngn: 4,6 miliardi vanno infatti al completamento della rete fino a 20 mega, quindi la «vecchia» Adsl 2+, e per la banda larga mobile fino a 14 mega, ossia l’Hsdpa di ultima generazione. I restanti 5,8 miliardi di qui al 2016 andranno nelle previsioni disponibili finora (sempre che il piano industriale non rimescoli le carte) tra le reti mobili 4G, ossia di quarta generazione, l’Lte, i nuovi centri servizi It che dovranno supportare tutto il maggior traffico dati in banda larga creato dalle nuove applicazioni, e infine dalla cosiddetta Ngn2, ossia le reti in fibra ottica. Che saranno di due tipi: o direttamente fino a casa dell’utente o fino a ciascun portone.
L’ordine di costo è dunque una frazione rispetto a quello dell’intera rete. E con questi chiari di luna non si possono certo snobbare risorse. Hanno un peso gli 800 milioni stanziati dal governo per il digital divide. Ma anche il miliardo di euro delle reti realizzate a vario titolo dagli enti locali, che, come è stato rilevato nel convegno organizzato il mese scorso da Between, (e come ripete spesso Corrado Calabrò) sono un ‘tesoretto’ che non ci si può più permettere di sprecare senza una direzione unitaria e condivisa.
Da questo punto di vista i timori dei concorrenti di Telecom che il gruppo usi gli aumenti del canone per finanziare le nuove reti non sembrano fondati. I 330 milioni servono alla gestione corrente. E tanto meno servono allo scopo i 30 milioni circa che Telecom spera di ottenere dall’aumento del canone di unbundling, ossia quello che pagano i soli concorrenti per essere ospitati nelle sue centrali. Una trentina di milioni che non risolvono i problemi di Bernabè ma che rischiano di stroncare i bilanci di Wind, Tele2, Tiscali e Fastweb. Quegli introiti che per Telecom sono margini positivi senza costi, per loro sarebbero una riduzione secca di Ebitda. A meno che non aumentino i prezzi. Cosa non certo facile in questo periodo. Anche perché (a differenze di quanto avverrà dal primo gennaio con il canone, che pagano tutti) qui l’aumento sarebbe solo per gli utenti non di Telecom.
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